Il calcio alle donne
di Fabiola

Quest’estate ci sono gli europei.
Ma cosa dici? Sono stati due anni fa! Quest’anno ci sono i mondiali!
No no, ci sono gli europei, la tredicesima edizione del Campionato europeo di calcio femminile, che si svolgerà in Inghilterra dal 6 al 31 luglio 2022. Eppure, niente preparazioni, niente dehors pieni di gente, niente baristi che si sfregano le mani pensando agli incassi.
L’immaginario collettivo porta ad associare il calcio alla ricchezza: macchine costose, ville o attici in giro per il mondo, vacanze da sogno. Allora come mai le calciatrici, anche di squadre in serie A, sono costrette a svolgere un secondo lavoro per potersi mantenere? Come mai le calciatrici che vanno agli europei devono chiedere ferie nei supermercati in cui fanno le cassiere?
Un calciatore di serie A guadagna 86 volte di più rispetto alle calciatrici del corrispettivo campionato femminile, pur svolgendo lo stesso mestiere, per il motivo più semplice del mondo: il calcio è uno sport da maschi. Lo sport professionistico è da maschi. E per le ragazze un’attività di questo tipo è un passatempo, non un mestiere, tantomeno un lavoro, oltre a un carico di stereotipi sessisti che devono subire. Il punto non è solo che la società ci ha insegnato che il lavoro di un uomo vale più di quello di una donna: qui stiamo ragionando sul fatto che la visibilità, le sponsorizzazioni, le opportunità e la serietà attribuita a professionisti uomini rispetto alle donne è imparagonabile. Il sistema è interamente costruito sulle figure maschili, vere e proprie icone nazionali, che sono assolutamente non confrontabili con le controparti femminili, non solo sconosciute ma addirittura ancora considerate dilettanti e non professioniste (situazione che dovrebbe cambiare nella prossima stagione grazie a recenti modifiche legislative).
Una chiara costruzione sociale, che accentua in maniera esponenziale le discriminazioni di genere, escludendo le donne non solo dalla discussione del calcio tra pari, ma anche relegando il diritto al sogno di fare il calciatore a un lusso maschile, generando un’altra (ennesima) privazione per le donne, sul piano sociale, passionale e professionale.

Sport e salute mentale
Statisticamente, la tendenza delle donne nello sport a vivere stati cronici di ansia e depressione è doppia rispetto a quella degli uomini. Il 100% in più, se preferiamo. Naomi Osaka a 23 anni si ritira dal tennis professionistico, Serena Williams racconta la depressione post partum e Simone Biles, talento cristallino della ginnastica artistica, si ritira dalle più recenti olimpiadi dicendo:
“Non appena metto piede sul tappeto siamo solo io e la mia testa e ho a che fare con i demoni… Devo fare ciò che è giusto per me e devo concentrarmi sulla mia salute mentale. Dobbiamo proteggere la nostra mente e il nostro corpo piuttosto che fare ciò che il mondo si aspetta da noi”
E gli uomini?
Leviamoci il dubbio, per chi ama queste domande. Certo, anche gli uomini vivono il problema della depressione nello sport: Phelps, Buffon, Agassi, DeRozan, hanno tutti esternato difficoltà di questo tipo.
E allora dove sta la differenza? La risposta è semplice: nelle domande.
“Quando hai tempo per pensare ai bambini?”
“Quindi è tuo marito che si occupa della casa?”
“Come fai a tenerti in forma? Che dieta segui?”
Una donna non è mai una sportiva professionista e basta. Agli occhi dei media lei è anche, forse in primis, una donna. Questioni simili esistono ad esempio nel mondo del cinema, per intenderci, ma il succo è sempre identico: il carico di una donna è sempre doppio, la richiesta è sempre doppia. Perché è necessario essere professionista, sportiva nel nostro caso, ed essere donna, essere bella, educata, attenta, altruista, emotiva, fragile ma forte, paziente, resiliente. Essere donna è un secondo lavoro, e nello sport, data la visione così superficiale della professione di atleta femminile, probabilmente è il primo.
Conclusioni
Cosa sogna una donna calciatrice? E cosa dovrebbe sognare una donna? Parità.
Parità negli stipendi sì, ma anche nel prestigio sociale, nel riscontro delle persone, nel seguito, nel riconoscimento di abilità in maniera distaccata dal sesso biologico e dai costrutti sociali. Una donna dovrebbe sognare di essere un’atleta, una lavoratrice, una professionista.
Una persona. Con un talento indiscutibile. Che, per una volta, non è quello di essere donna.