Le cime pazienti
di Alessandro e Manuela
Tornare alla quotidianità, al lavoro d’ufficio. Portarci dietro uno strascico di quiete che si dipana lentamente, accompagnandoci verso l’autunno e i colori caldi.
Vogliamo farci strada nel caldo di settembre consigliandovi tre libri freschi, che raccontano la montagna e l’autenticità delle vette. Sono tre libri che hanno accompagnato i nostri giorni estivi e speriamo possano accompagnare i vostri rientri lenti, le vostre serate pazienti.
Samantha Walton in “Luoghi per guarire” ci racconta il suo approccio alla montagna, sfatandone l’aspetto machista della conquista della vetta, in favore di un approccio contemplativo, di un aspetto del piacere nel percorso e delle sensazioni che regala la natura nel farlo:
“Dalla cultura europea e nordamericana ho ereditato l’idea che la conquista della vetta sia l’unica vera Porta. […] Per sentirne pienamente l’effetto, l’ideale era scalarle da soli.
Il Viandante sul mare di nebbia di Friedrich è l’emblema del sublime alpino. Con la sua redingote, il bastone da passeggio e le scarpe del tutto inadeguate all’ambiente. Quest’uomo ha vinto la natura e la guarda dall’alto in basso: Sono il re di tutto ciò che vedo.
[…] Non voglio dimostrare nulla oggi. Mi fermo continuamente per fare foto, mangiare uno snack o soffiarmi il naso. Vengo distratta da un tronco d’albero che pende sul torrente. Vorrei capire se posso arrampicarmici sopra, e l’unico modo per saperlo è provarci. Salgo per un breve tratto, ma scivolo e devo strisciare giù dal fianco destro. Il cielo è di un blu elettrico, e sembra che il sole voglia rimanere lassù tutto il giorno, ma so che ho bisogno di continuare a muovermi. È difficile resistere alla tentazione di fermarsi a esplorare.”
Scrive bene Paolo Malaguti, il suo romanzo non è stato inserito nello Strega di quest’anno probabilmente solo perché pubblicato qualche giorno dopo il tempo limite di candidatura. Ma non c’è dubbio, qualche premio letterario lo porterà a casa.
È una storia di vita in montagna, a cavallo tra la fine dell’Ottocento e lo scorso secolo, sulla Grapa: rigorosamente al femminile e senza doppie. Dove le descrizioni dei paesaggi, dei colori e dei profumi fatte dal Moro sono così vivide da percepirle.
Già, Il Moro, figura storicamente esistita, uno dei primi gestori di rifugi in Italia, al secolo: Agostino Faccin (1866-1951). Il suo è un flusso continuo di pensieri, di elucubrazioni e quel “Il Moro” spesso presente a ogni capoverso, mi ha ricordato molto il “sostiene Pereira”, che tanto mi aveva rapito con Tabucchi.
Il Moro prova un amore smisurato verso la sua montagna, quello che i greci chiamerebbero agape, un richiamo irresistibile che ha inizio una sera in una stalla, come in un’antesignana presentazione di un libro in una biblioteca, con un racconto di malghe e del “fagheròn del diavolo”: il faggio più grande di tutta la montagna e ancora i verdi prati dei pascoli e il profumo della resina… Il piccolo Moro è catturato e inizierà la sua ascesa alla Grapa col suo cane Too prima e continuando col fedele mulo Savoiardo, attraversando due guerre mondiali e tantissimi immortali ricordi, che gli concederanno un’ultima risata, di quelle vere come “ti prendono nell’infanzia, quando il mondo ancora stupisce e rallegra, e ti obbligano a pissarti nelle braghesse”.
Caterina Soffici si trasferisce a 1700 metri, in un borgo sotto il ghiacciaio del Monte Rosa. Non sappiamo perché, sappiamo solo che la sua vita sta per rivoluzionarsi. Lei che arriva dalla città ed è considerata dai pastori una turista, lei che ama il mare. Lei che immagina la montagna con quel filtro di alba e poesia, senza aver considerato realmente come sia la vita sulle alture.
Con il passare delle stagioni osserva il paesaggio mutare, evolversi, colorarsi di vita. Un branco di lupi, un’aquila, la regina delle caprette: i suoi nuovi vicini di casa le insegnano l’importanza delle piccole cose. Prova la fatica di una mattinata passata a spalare la neve, la quiete di un pomeriggio passato seduta a osservare il paesaggio, lo stupore nell’osservare le stelle che si moltiplicano a ogni battito di ciglia. E impara l’importanza del percorso, del sentiero, la necessità della cura del tempo. Perché non occorre arrivare in cima in fretta, arrampicarsi sempre più in alto: il viaggio stesso, affrontato con occhi curiosi e piedi gentili, è la vera ricompensa.