Cinque domande con Paola Cereda
Come è nata la sua passione per la scrittura? Come è diventata una scrittrice e quanto è importante per lei questo lato della sua vita?
La passione per la scrittura è nata fin da giovanissima. Quando ero adolescente tenevo un diario e, attorno ai 17, 18 anni ho cominciato a scrivere commedie per la compagnia di teatro del paese in cui vivevo. Commedie dialettali! Non a caso la passione per i dialetti la porto come me anche nei romanzi che scrivo.
Negli anni la scrittura mi ha preso sempre più tempo: dapprima il tempo libero fino a sovrapporsi al lavoro, per poi diventare il mio lavoro. Oggi mi occupo di storie: alcune le scrivo al computer della mia scrivania, altre le scrivo in maniera collettiva insieme a tante persone, per esempio attraverso lo strumento del teatro comunitario. Le storie sono il filtro attraverso il quale mi immergo nel presente, e non potrei farne a meno.
Oltre a scrivere le piace anche leggere? E quali libri hanno contribuito al suo processo creativo?
Leggo molto, certo. Leggere bene è mangiare cose buone, quindi scelgo con cura i libri che leggo. A dire la verità, ho iniziato ad appassionarmi ai romanzi solo verso i 15 anni, guidata da una professoressa che accompagnò la mia classe alla lettura dei classici. Sono stata formata da Pirandello, Verga, Svevo, Ibsen, Bassani e, in età adulta, mi sono avvicinata alla letteratura contemporanea. Sono molti i libri che hanno contribuito al mio processo creativo: se dovessi sceglierne uno, sceglierei La coscienza di Zeno. Se ho studiato psicologia all’università, lo devo alla letteratura! Non a caso, Freud attribuiva agli artisti la funzione fondamentale di mettere se stessi e gli altri in comunicazione con l’inconscio, “senza rimprovero e senza vergogna”.
Quali sono i luoghi o quartieri di Torino che hanno maggiormente influenzato i suoi racconti e perché?
Mi sono trasferita a Torino per frequentare l’università, dopo la laurea me ne sono andata e sono tornata nel 2010. Oggi collaboro con un’associazione torinese che si occupa di intercultura e ho l’opportunità di lavorare in diversi quartieri, quasi tutti periferici e con storie migratorie stratificate, che vanno dagli anni del boom economico fino al presente. Sono i posti che frequento di più, che ritrovo familiari anche per la mia esperienza di lavoro all’estero: in America Latina, dove ho vissuto per un periodo, mi occupavo di migrazione italiana e contemporanea, e di arte sociale. Qui a Torino ritrovo la pluralità, le problematiche e lo stesso fermento culturale “dal basso”. Barriera, Porta Palazzo, Mirafiori, Falchera sono quartieri ricchi di storie da ascoltare e da raccontare.
Ha mai avuto il blocco dello scrittore?
Se ce l’ho, non me ne preoccupo. Leggo, viaggio, metto in moto la curiosità senza stressarmi con il “dover scrivere a tutti i costi”.
Di solito funziona.
Pensa che la scrittura possa avere delle proprietà terapeutiche?
Di sicuro, come tutto ciò che dà forma e rende condivisibile le verità narrative di ognuno di noi. Ci raccontiamo e raccontiamo le storie per come le sentiamo: non è detto che siano giuste o sbagliate, ma hanno sempre valore per come le diciamo. Le storie servono a fare ordine, e quindi spazio, ad altre esperienze e a nuove narrazioni.
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Le tre notti dell’abbondanza
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